
Teoria del progresso e cultura del mercato
“..if an object is good once, it will be good 20 times over..” (1)
Nel mondo dell'arte e dell'artigianato, il concetto di serie ha spesso provocato accese discussioni tra i sostenitori della purezza del pezzo unico, da un lato, e i fautori della serie quale moltiplicatore di idee, dall'altra. Entrambe hanno portato a sostegno delle loro tesi, corpose argomentazioni che hanno reso la questione lungi dall'essere risolta. L'oggetto del contendere, è sempre stato il timore di far perdere all'opera d'arte la sua vera “aura”, la sua purezza primordiale, incontaminata, propria del “unicum”.
La “Gioconda” di Leonardo, perderebbe qual cosa del suo fascino se fosse ripetuta perfettamente uguale in infinite copie?
Il concetto di serie nasce da quel desiderio umano di conoscere l'ignoto e controllare il mondo noto. Questa concezione fonda le sue radici in quella cultura del progresso, più simile ad una religione che ad una scienza esatta.
“Ad Atene, al tempo dell'apostolo Paolo, tra i templi di molti dei, in cui ormai da molto tempo non si credeva più, si ergeva l'altare al dio ignoto. In questo si esprimeva l'insopprimibile ricerca di Dio ad opera di un'umanità che aveva perso l'antica fede.” (2)
Per migliaia di anni l'uomo ha prodotto inconsapevolmente pezzi unici, senza mai porsi il problema della copia, semplicemente perché non esisteva un altro modo di produrli.
Ma così come è accaduto per le scienze, anche nell'arte, la tecnica ed il progresso hanno messo in discussione ciò che sembrava incontestabile. Quello che è cambiato, non è stato il rapporto tra idea e sua realizzazione, ma tra opera e suo contesto. “Il cosmo degli Antichi quindi, ha ceduto lentamente il posto ad un nuovo mondo, geometrico, omogeneo e infinito, governato da leggi di causa-effetto. Il modello che vi si applicava era un modello meccanico, più precisamente quello dell'orologio. Il tempo stesso diventava omogeneo, misurabile: era il “tempo dei mercanti” che sostituiva il “tempo dei contadini” (Jacques Le Goff).” La mentalità tecnica sorge da questo nuovo spirito scientifico. La tecnica ha l'obiettivo principale di accumulare cose utili, ossia di aiutare a produrle. Si sottolinea dunque il carattere cumulabile del sapere scientifico. La conclusione che se ne trae è il carattere necessario del progresso: se ne saprà sempre di più, dunque tutto andrà sempre meglio. La nozione di progresso implica l'idolatria del novum: ogni novità è a priori migliore per il solo fatto che è nuova. Questa sete di nuovo, sistematicamente considerato sinonimo di migliore, diventerà rapidamente una delle ossessioni della modernità. In ambito artistico, essa sfocerà nella nozione di “avanguardia”.
Parallelamente, l'uomo è posto non soltanto come un essere dai desideri e bisogni continuamente rinnovabili, ma anche come un essere indefinitamente perfettibile. La diversità umana, individuale o collettiva, è vista come contingente e indefinitamente trasformabile attraverso l'educazione e l'ambiente. Si presume che l'uomo realizzi la sua umanità solo opponendosi a una natura da cui gli è necessario affrancarsi per potersi civilizzare. Chiunque si opponga al progresso dell'umanità può a buon diritto essere posto fuori dell'umanità e considerato “nemico del genere umano” (di qui la difficoltà di riconciliare le due affermazioni kantiane dell'uguale dignità degli uomini e del progresso dell'umanità). L'ottimismo tipico della teoria del progresso si estende rapidamente a tutti gli ambiti, alla società e all'uomo. Si presume che il regno della ragione sfoci in una società al contempo trasparente e pacificata. Ritenuto vantaggioso per tutte le parti, il “dolce commercio” (Montesquieu) è chiamato a sostituire lo scambio mercantile al conflitto. Un “progetto di pace perpetua” lo definì l'abate di Saint-Pierre, che Rousseau criticò aspramente. Ma questa “pace” ha prodotto il passaggio dalla concezione di oggetto quale rappresentazione compiuta e finita di una esigenza umana, all'idea di merce quale espressione generica ed infinita di un ipotetico bisogno collettivo. Dall'oggetto unico per un uomo singolo all'oggetto indeterminato per una umanità infinita.
E' questa dilatazione del tempo e dello spazio che ha travolto l'artigianato, lo ha reso asìncrono rispetto alla sua società. Abituati da sempre a produrre con le mani, in quantità limitate, è semplicemente scomparso il suo mondo. Oggi, dato che la tecnologia consente anche all'artigiano di produrre in infinite copie, tutte perfettamente uguali, ci dovremmo chiedere; per chi stiamo producendo?
In altre parole, chi è il nuovo interlocutore dell'artigiano?
Se guardiamo al mercato, ci rendiamo conto che esso è invaso da una infinita quantità di prodotti sempre nuovi e sempre più desiderabili. La nostra bulimia dell'ultimo ci spinge a consumare tutto, in fretta, senza distinguere più nulla. Banale e cultura vengono proposti dal mercato senza possibilità di riflessione, vivono nelle nostre società come facce di una stessa medaglia. “Di fronte al mondo sempre più mediatizzato, il banale propaga qualcosa di una socialità mistica dell'uguaglianza. Tutti gli uomini sono uguali di fronte al banale. La profezia dell'arte di massa si è realizzata, ma non nelle intenzioni dei suoi sostenitori. Là dove l'economia globalizzata chiede il massimo in nome del valore economico, della libertà di commercio, accade che nell'arte, si ha il minimo del valore, cioè un antivalore. Il banale è questo antivalore del mondo, che diventa la regola generale del suo funzionamento.” (3) Banalizzare significa semplificare, rendere uniforme, adattare ad una moltitudine. Si de-materializza l'oggetto per renderlo più fruibile. E' mutata quindi la sua stessa percezione, la sua fisicità e il suo rapporto con il tempo.
Rem Koolhaas, nel Jankspace, ha scritto che “nell'antropologia materiale contemporanea, il progettare o meno non fa più differenza. Nell'incontro terribile con l'esistenza, l'uomo mette in forma la materia per creare un senso, laddove la vita sarebbe solo caso. Oggi che lo scopo del progetto non è più fissare lo spazio ma mantenerlo mobile, che un oggetto sia fatto bene o male tende ad essere sempre più irrilevante: ciò che conta, è che cambi e sia di una qualche misura diverso rispetto a se stesso e a ciò che gli sta accanto. Nella dinamica dei consumi, la transitorietà fa parte dell'intima natura delle cose. ”(4)
Ma se non nella qualità, dove possiamo trovare il “senso” degli oggetti del XXI secolo?
Molto probabilmente nella “rete”e nel suo alto grado di partecipazione del pubblico alla produzione dei contenuti. Questa attitudine alla partecipazione generalizzata sta diventando così forte da andare oltre il web, e investire in toto il modo di sentire gli oggetti da parte delle persone, che li vivono sempre meno come qualcosa di “finito” e sempre di più come occasione per processi creativi partecipati, aperti ed evoluti. Oggi che la realtà si è fatta liquida, il fatto che un oggetto sia proprio quell'oggetto, viene avvertito dalle persone come un qual cosa di contingente che come tale può essere anche in un altro modo.
Di conseguenza il valore percepito di un oggetto è sempre più determinato dalla sua evoluzione aperta piuttosto che dal suo permanere identico a se stesso. Il senso degli oggetti del XXI secolo non sta in ciò che un oggetto è, ma in ciò che potrebbe essere. Dunque, a essere percepito come non autentico sarà sempre più l'oggetto che non cambia e a cui l'utente non può partecipare. Di questo cambiamento, il creatore ne dovrà per forza tener conto nel suo lavoro di comunicazione. Esso non potrà più aspirare al consenso di massa, quale carburante del suo fare, ma dovrà individuare nel rapporto intimo con il fruitore il senso vero del suo agire.
La funzione dell'autore, quindi, potrebbe esaurirsi “nel momento stesso in cui un messaggio incrocia anche una sola persona innescando un meccanismo di riflessione”(4) .
Dunque, proprio ora che l'industria con la sua serialità cieca e impersonale sembra aver spazzato via la necessità del lavoro ad personam, il gioiello contemporaneo proprio grazie a questa sua innata limitazione ai processi globali, a questa sua endemica vocazione a parlare alle singole coscienze, rappresenta forse oggi la vera risposta a quella domanda di partecipazione del nuovo utente-cliente. La crisi che stiamo vivendo, per ironia della sorte, ci consegnerà un modo profondamente cambiato, messo davanti all'evidente fallimento dell'idea di una crescita a prescindere. La storia a volte gioca strani scherzi, sarà come essere tornati al punto di partenza della nostra discussione, dove creare esemplari unici o infinte copie, non avrà più alcuna importanza, conterà solo la capacità di arrivare al cuore di ogni singolo individuo, parte più ampia di una comunità indeterminata.
“..if an object is good once, it will be good 20 times over..” (1)
Note:
1 - Benjamin Lignel - Bethel, Metalsmith Magazine, 2008
2 - S.N. Bulgakov, Problemi fondamentali della teoria del progresso (1902)
3 - Exibart newspaper - 2009
4 - Rem Koolhaas , Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano (2006)
5 – Exibart newspaper - 2009